La carnalità liquida del desiderio d’unione sembra essere la prima evidenza delle opere di Marta Fontana. Un desiderio autentico che tuttavia non appare mai sedato, che fortunatamente – o fortunosamente – non riesce ad essere solido, permanente, durevole.
I desideri si appagano e, se non trovano le strade per il loro compimento, si rappresentano, o meglio si “dicono”, si presentano, nella loro carnalità più intima. Quasi si trattasse di un fluido che può sanare le ferite che ci vengono inferte; quasi si trattasse di un ex-voto che ricorda che le ferite inferte hanno lasciato una cicatrice, visibile, cruda.
«Lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità», scriveva Julia Kristeva, ed a volte è il nostro desiderio che manifesta l’alterità, la complessità del nostro essere plurale che si manifesta in modo inesorabile con il dispiegarsi dell’esperienza.
La natura di quel desiderio, insondabile ed inesauribile, viene vissuta come processo organico di mutazione della forma, in una sorta di concezione “fluida” del mondo che non si limita alla pura presenza, che non si limita a porre l’oggetto di fronte all’osservatore, ma piuttosto ridisegna la vita della materia, arricchendola di significati ulteriori, grazie alla quale – come sottolineava John Cage – l’arte diviene «una sorta di condizione sperimentale in cui si sottopone a verifica il vivere».
C’è però un aspetto più profondo che, nella riflessione di Marta Fontana, si fa strada e prende corpo: l’attivazione di una serie di interrogazioni che investono la dimensione della temporalità.
Più che puntare sulla “verità” del desiderio come spazio concreto per individuare la genesi delle forme, più che operare sulle suggestioni che si possono immaginare all’interno del tempo in cui si dispiegano gli avvolgimenti della materia, l’artista fa entrare in gioco una memoria fatta di empatie sottili che, da un lato, sollecita tensioni verso l’origine della forma, e, dall’altro, individua tracce, orme, impronte che sono reliquie di un archivio personale che tiene in vita ciò che è lontano nel tempo.
Si tratta di una memoria che non si manifesta come ricordo, ma come corrente – individuale, antropologica, di genere – dove tutto continua a fluire: è sentire di aver sentito e di stare per sentire.
Che si tratti di un piacere regressivo o di una soddisfazione differita, di rimozione o di nostalgia, Marta Fontana sembra evocare un tempo carico di dolore, di assenza, di sprofondamento del senso. Un tempo che richiede di tessere l’ordito di una vela che sappia trasportarci verso il superamento del “limite” imposto alla soggettività, che – più che riesumare e portare all’intelligenza il luogo oscuro di ciascuna vita – ponga la sensibilità al servizio dell’oscurità della vita.
Bruno Bandini |